STORIA DELLA PSICOLOGIA CLINICA

Di cosa si occupa la psicologia clinica:
La psicologia clinica comprende lo studio scientifico e le applicazioni della psicologia in merito alla comprensione, prevenzione ed intervento nelle problematiche psicologiche e relazionali, a livello individuale, famigliare e gruppale, compresa anche la promozione del benessere psicosociale e la gestione (valutativa e di sostegno) di molte forme di psicopatologia.

A differenza di quello sperimentale, il metodo clinico utilizza il rapporto interpersonale come strumento di conoscenza. 

Le radici della psicologia clinica
La psicologia clinica fonda le sue radici in due differenti tradizioni della psicologia nate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in Europa: la ricerca psicometrica e differenziale, la psicodinamica.

Come abbiamo visto nella sezione Storia della psicologia a partire dalla metà dell’Ottocento, la psicofisica aveva messo a punto delle tecniche per misurare i fenomeni psicologici attinenti alle percezioni e sensazioni. 
Nel 1883 lo studioso Inglese Francis Galton (1822-1911)
cugino di Charles Darwin, usò in maniera originale alcune modalità di indagine delle differenze intellettive individuali. Egli aveva raccolto una grande quantità di dati sugli aristocratici, i grandi professionisti e i docenti universitari, che vennero analizzati statisticamente usando il principio della probabilità e della curva normale di distribuzione delle differenze individuali. I risultati delle sue ricerche lo portarono alla pubblicazione, nel 1869, di Hereditary Genius in cui formulava la sua tesi fondamentale, secondo cui  l’intelligenza è un fattore ereditario. Spinto dalla necessità primaria di sviluppare tecniche oggettive per l’identificazione delle persone dotate, nel 1884 (sulla scia di Quetelet e Wundt), Galton attivò a Londra un laboratorio antropometrico dove potevano essere misurati 17 differenti “processi psicologici elementari” come la velocità con cui un individuo era in grado di sferrare un colpo, il livello di acutezza visiva ecc.

James Mc Keen Cattel (1860-1944)
psicologo statunitense, a partire dal 1890 (dopo la formazione con Wundt e poi con Galton con ricerche sulla teoria gaussiana della distribuzione normale), iniziò un lavoro di misurazione delle differenze individuali tramite lo studio di fenomeni psicologici molto circoscritti come la percezione del dolore, la differenza tra i pesi ecc. Nel 1890 introdusse il termine test mentale. Sempre nello stesso periodo Cattel costituì una prima organizzazione, la Psychological Corporation, in grado di offrire le prime applicazioni psicometriche in campo industriale ed educativo (Korchin, 1976; Reuchlin, 1991).  

Nei primi del Novecento Alfred Binet mise in discussione il metodo di Galton e Cattel in quanto non si era rivelato utile nel predire e discriminare le caratteristiche psichiche. Nel saggio Psychologie individuelle del 1896 Binet e Henri affermarono che il modo migliore per discriminare gli individui consisteva nel rilevare le loro capacità psicologiche superiori. Nel 1905 Binet, su mandato della Pubblica Istruzione Francese, propose la prima edizione della scala per la misurazione delle capacità intellettive: Misurazione di dimensioni psicologiche di abilità cognitive.

La tradizione psicodinamica propose una nuova idea del funzionamento psichico non interamente riconducibile ai meccanismi biologici e fisiologici, come ipotizzato dal filone medico-psichiatrico, bensì regolato da sistemi dinamici di tipo motivazionale, indagabili solamente attraverso metodi psicologici. L’interesse si rivolse dunque alle teorie psicodinamiche della personalità, intesa come un sistema integrato non riconducibile a substrati biologici e neurofisiologici (Ellenberger, 1970). La prospettiva psicodinamica prese avvio, da un lato dal lavoro di Théodule Ribot (1839-1916), Pierre Janet (1859-1947) e Gorge Dumas (1866-1946), studiosi appartenenti ad un’area di studi riguardante la Psycologie pathologique, particolarmente fiorente in quegli anni in Francia alla Sorbona di Parigi e al Collège de France, dall’altro, dal lavoro di Auguste Ambroise Liébealt (1823-1904), Hippolyte Bernheim (1840-1919), Jean Martine Charcot (1825-1893), Eugene Bleuler (1857-1939) e Sigmund Freud (1856-1939) esponenti di prestigio, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, degli studi medici e psicopatologici, afferenti al campo della neurologia clinica ( Boring, 1950; Ellenberger, 1970).

Théodule Ribot
già docente di Psicologia alla Sorbona dal 1855, nel 1888 ottenne la prima cattedra francese di Psicologia sperimentale al Collège de France mantenendo l’incarico fino al 1896. Egli inaugurò una particolare tradizione di studi di psicologia patologica entro cui si formarono in seguito i suoi principali allievi, George Dumas e Pierre Janet, e di cui fondò una scuola. Egli, ritenendo la psicologia una scienza indipendente dalle altre discipline, ne studiò i fatti patologici, oggetto privilegiato della sua ricerca sperimentale, occupandosi non solo dei fenomeni, ma anche delle leggi del loro funzionamento e delle loro cause, utilizzando un metodo in grado di classificarli ed ordinarli. Riguardo lo sviluppo di tali fatti psicologici, individuò nel principio di dissoluzione l’elemento regolatore del funzionamento psicopatologico, attraverso cui era possibile intraprendere uno studio scientifico delle anomalie delle funzioni mentali, ovvero della patologia psicologica. Questo metodo, detto patologico, divenne potente strumento d’indagine sistematica, in quanto consisteva nell’osservazione pura del fatto psicopatologico così come manifestato dal comportamento della persona malata e della sperimentazione su di esso, per poter successivamente risalire al funzionamento psichico normale. L’elemento di fondo era dato dalla continuità tra normale e patologico, in quanto la patologia era determinata dagli stessi meccanismi che regolavano la vita psichica normale, e rappresentava dunque la specifica manifestazione di una regressione o di una deviazione dal funzionamento psichico normale, una sorta di ritorno a forme antecedenti di sviluppo e a livelli precedenti del sistema. Se l’osservazione del fatto patologico permetteva dunque di comprendere la psicologia normale, si presupponeva un’identità o una  continuità tra il normale ed il patologico, dimostrando che la comprensione dei fenomeni patologici non poteva limitarsi allo studio degli stati di coscienza accessori, né dello stato fisico, ma doveva cogliere i legami che potevano unire tali dimensioni, in quanto ogni fenomeno psicologico aveva un duplice aspetto sia fisico che patologico, ed uno solo di essi non esauriva la complessità e la globalità dell’individuo. Allo stesso modo, la fisiologia e la patologia erano considerate entrambe due modalità indispensabili per studiare il fatto psicologico nella sua globalità. Nella storia del pensiero psicopatologico e clinico in Europa, le idee di Ribot  possono essere considerate l’inizio della psicologia scientifica.

Contemporaneamente all’approccio psicologico di Ribot, si sviluppò in Francia la tradizione metodologica iniziata nel campo della neurologia clinica da Jean Martin Charcot
Egli fu uno degli iniziatori dello studio delle malattie neurologiche secondo il metodo anatomo-clinico, tramite il quale osservava attentamente i sintomi, i segni e il decorso di un disturbo collegandoli all’indagine anatomica post-mortem. Nel 1870, egli si trovò a dirigere un reparto della Salpêtrière che presentava due tipologie principali di pazienti: le epilettiche senza complicazioni psichiatriche e le isteriche. Per studiare quest’ultima patologia, Charcot utilizzava metodologicamente lo studio dei tipi ideali e delle frustes: i primi comprendevano quei casi che esprimevano la forma della malattia con tutto il corredo sintomatologico sviluppato; le frustes erano invece quelle forme che si differenziavano dai tipi perché non presentavano l’intera fenomenologia sintomatologica. In tal modo Charcot distinse le fasi ricorrenti delle malattie che studiava secondo un modello prototipico. Quest’attitudine clinica e classificatoria propria della metodologia dei tipi, risultava utile a Charcot come strumento didattico e, secondo questa prospettiva, giunse alla concezione secondo cui l’isteria era causata da lesioni dinamiche e funzionali del sistema nervoso e risultava associata all’ipnotizzabilità dell’isterica, per cui l’ipnosi risultava essere un fattore specifico nell’isteria. Su questa linea egli, da un lato utilizzò sistematicamente l’ipnosi per mettere in luce la fenomenologia dei fenomeni isterici, dall’altro suddivise l’isteria in stadi, ricercandone la tipologia ideale di manifestazione così come faceva con i disturbi del sistema nervoso. Charcot, nei suoi anni di direzione dei reparti di neurologia alla Salpêtrière promosse la collaborazione con studiosi di diversa formazione, come quella con il principale degli allievi di Ribot, Pierre Janet, il quale andò a lavorare con lui presso l’ospedale parigino a partire dal 1890.

Pierre Janet
a partire dalla sua tesi Automatisme psychologique del 1889 elaborò, all’interno della psicologia sperimentale obiettiva, una concezione metodologica fondata sull’attenta osservazione attuale dei gesti, degli atti e dei movimenti e sulla minuziosa raccolta della biografia di donne isteriche, definendo l’isteria una patologia di natura psichica, diversamente da molti studiosi contemporanei che l’attribuivano invece a disfunzioni fisiologiche. Nella prospettiva metodologica da lui proposta nel 1889, il metodo clinico procedeva mediante la combinazione di due momenti, da lui chiamati dell’analisi e della sintesi: il primo era rappresentato dall’osservazione dei fenomeni psicologici sintomatici e dall’individuazione dei loro elementi di base o costitutivi; il momento seguente, o della sintesi, risultava finalizzato alla ricostruzione storica e alla messa in relazione dinamica dei fenomeni psicopatologici precedentemente individuati nei loro primi elementi costitutivi (Ellenberger, 1970). Sulla base di questi presupposti, Janet elaborò una teoria dell’automatismo psicologico cosciente e subcosciente su cui fondò un’originale teoria psicodinamica della personalità. Egli definiva, infatti, la personalità normale come una sintesi e un’integrazione, relativamente stabile e ad un livello elevato, di idee, pulsioni, tendenze, forza e tensione (teoria dinamica), secondo cui la malattia mentale, come nel caso delle nevrosi (isteria e psicastenia), consiste nell’indebolimento della tensione psichica e in una dissociazione della sintesi personale che comporta una scissione dei significativi eventi esistenziali, generalmente causata da eventi traumatici del passato che diventano così subconsci (idee fisse subconsce), ai quali si poteva risalire attraverso l’ipnosi. Dirette conseguenze di tale processo consistono nel restringimento del campo di coscienza, che non permette a certi fenomeni psicologici di essere coscienti, nella compromissione della funzione del reale, a sua volta responsabile della capacità di agire, e nell’accentuazione di funzioni inferiori automatiche (Ellenberger, 1970). Janet introdusse inoltre il concetto di condotta intesa come comportamento globale, intenzionale ed intrinsecamente significante, contrapposto alla nozione di comportamento molecolare propria del primo comportamentismo nordamericano. Nel corso della sua ricerca, egli utilizzò in modo controllato l’ipnosi sia a scopo di ricerca, sia con un’esplicita finalità terapeutica e, in questo senso, la psicologia scientifica doveva occuparsi, secondo lui, dello studio dei fenomeni patologici ,  in vista di una sua possibile applicazione pratica. Perciò Janet, in Les médications psychologiques (1928), tentò una verifica degli interventi, effettuando una rigorosa analisi retrospettiva delle storie cliniche di un vasto numero di pazienti trattati con le terapie psicologiche (Ellenberger, 1970).
Da quanto emerso, è evidente l’apporto innovativo delle concezioni dinamiche della psicopatologia clinica di Janet. La sua teoria dei disturbi mentali rappresentò da un lato il superamento della tradizione organicista classica, e dall’altro un elemento di diversità rispetto all’impostazione psicoanalitica. Dalla sua teoria ne emerse una generale dei processi mentali, sia normali che patologici, basata sulle ricerche sia della psicopatologia che della psicologia sperimentale. In questa direzione si individuò nella teoria dinamica di Janet un tentativo di integrazione tra la psicologia e la psicopatologia, tra il normale e il patologico, riferibili ad una stessa teoria di funzionamento psicologico. Il suo contributo ha svolto un ruolo fondamentale per le concezioni organo-dinamiche di Ey, per i lavori neurofisiologici basati sul concetto di tensione , per lo studio delle condotte del behaviorismo, e per la formazione del pensiero di Jean Piaget. La psicologia janetiana rappresentò infine il filtro della penetrazione della psicoanalisi in Francia e una tappa fondamentale nello sviluppo della psichiatria dinamica.

Sigmund Freud
si recò per alcuni mesi, tra il 1885 ed il 1886, ad apprendere la neurologia clinica di Charcot, entrando in contatto con la tradizione medica e psicopatologica francese. Egli, nel 1889, passò anche alcune settimane a Nancy, alla scuola di Liébault e Bernheim, dove apprese una concezione psicogenetica dei fenomeni psicopatologici e della suggestionabilità ipnotica che si differenziava dalle teorie di Charcot ed esaltava le caratteristiche psicoterapeutiche del rapporto medico-paziente. Freud fu influenzato particolarmente dalla metodologia di Charcot, in particolare dalle frustes che si discostavano dal quadro tipico e dalla configurazione individuale dei casi nella combinazione dei sintomi. Egli notò dunque che, mentre nell’approccio tedesco i sintomi erano rilevati in funzione di una loro spiegazione fisiopatologica, nella clinica francese invece questa rimaneva sullo sfondo: le osservazioni cliniche rintracciavano la configurazione individuale dei casi e la combinazione dei sintomi. In tal senso Freud colse una novità epistemologica nella clinica francese, secondo cui il sintomo non era più ritenuto esclusivamente un segnale assoluto di una malattia da trattare, come per la tradizione medica, ma assumeva uno specifico significato psicologico in quanto manifestazione dell’individualità che lo esprimeva, per cui questo non rappresentava più l’aspetto osservabile ed oggettivo del disturbo, bensì la rappresentazione esterna di un conflitto psichico inconscio al quale si poteva risalire solo se gli veniva attribuito uno specifico significato più che una classificazione sindromica. Il nuovo obiettivo terapeutico era rivolto dunque a riorganizzare la struttura basilare agendo sui conflitti psichici prodotti da una particolare forma di organizzazione della struttura psichica. I fenomeni psichici, sia normali che patologici, non rappresentavano più gli epifenomeni dell’attività cerebrale secondo la metodologia di intervento psichiatrico-organicista ma, secondo una teoria dinamica della personalità, diventarono la risultante di forze psichiche coscienti ed inconsce, e l’intervento terapeutico iniziò a fondarsi su basi psicologiche. Secondo Freud, un altro aspetto originale della clinica di Charcot consisteva nel dimostrare l’esistenza di una regolarità e di leggi in un campo in cui un’osservazione clinica svogliata aveva messo in luce simulazione o disordine. Seguendo questa linea e passando per l’ipnosi e per il metodo catartico, Freud edificò la psicoanalisi secondo un presupposto metodologico, in base al quale, oggetto privilegiato di studio erano quei fatti psichici (sogni, lapsus, atti mancati, motti di spirito) che apparivano come fenomeni marginali e aleatori, che sfuggivano ad uno studio anatomo-clinico o sperimentale di tipo sistematico. Freud sviluppò in tal senso quel corpus di conoscenze psicologiche, rappresentato dalla psicoanalisi, mirato alla conoscenza della realtà psichica individuale sulla base di uno studio sistematico di eventi abitualmente considerati privi di importanza e trascurabili. 
Le conoscenze psicoanalitiche sulla personalità individuale vennero inferite utilizzando una metodologia clinica di analisi, intesa come una procedura finalizzata all’individuazione di indizi spontanei o provocati, convergenti verso una specifica costruzione interpretativa che produceva la trasformazione ed il cambiamento individuale. La tradizione avviata da Freud ha avuto una particolare, anche se non esclusiva, incidenza nella storia della psicologia clinica, in quanto, tra gli studiosi citati, fu maggiormente in grado di formalizzare i modelli sistematici di funzionamento dell’attività psichica e di studiare la personalità con l’obiettivo di proporre uno specifico processo di cambiamento , mediante mezzi di intervento terapeutico di natura esclusivamente psicologica (Musatti, 1953; 1970). Le possibilità applicative della psicoanalisi parvero ai primi psicologi americani tanto interessanti da invitare personalmente Freud ed i suoi più stretti collaboratori ad esporre le proprie idee in una serie di conferenze tenute nel 1909 presso la Facoltà di Psicologia della Clark University di Worcester in occorrenza della ricorrenza del ventennale della sua fondazione. L’interessamento di Stanley Hall e William James poi, favorì l’ingresso ufficiale della psicoanalisi e della tradizione psicodinamica nell’ambito della psicologia clinica statunitense (Shakow, Rapaport, 1971; Reisman, 1991). 

Hippolyte Bernheim
fondatore insieme ad Auguste Ambrosie Liébault della Scuola di Nancy, fu uno dei più grandi personaggi del panorama scientifico europeo nella seconda metà dell’Ottocento. Egli si occupò dell’ipnosi e della sua utilizzazione per il trattamento dei disturbi mentali e, in opposizione a Charcot e alla scuola della Salpêtrière di Parigi, ritenne che l’ipnosi non fosse una condizione patologica riscontrabile solo negli isterici, ma un effetto invece della suggestione. Quest’ultima era dunque considerata il fattore fondamentale dell’ipnosi e fattore principale nell’isteria, poiché era possibile ipnotizzare anche le persone non isteriche. Bernheim, e prima ancora lo stesso Liébault, ritennero che il fattore principale dell’isteria fosse rappresentato dalla suggestionabilità, ovvero da quella disposizione a trasformare un’idea in un’azione, presente in ogni essere umano anche se in gradi diversi: l’ipnosi era dunque ritenuta uno stato di accentuazione della suggestionabilità indotta da suggestione (Ellenberger, 1970). A tale proposito l’ipnotismo poteva essere utilizzato come metodo di intervento per il trattamento di molte malattie organiche del sistema nervoso, rimanendo comunque un fenomeno di natura psicologica. L’atteggiamento psicoterapeutico di Bernheim si rivolse alla sperimentazione della suggestione post-ipnotica, dimostrando che i contenuti mentali inconsci potevano influenzare il comportamento: i pazienti che si svegliavano dalla trance ipnotica eseguivano infatti gli ordini impartiti dal terapeuta durante l’ipnosi, senza ricordare che si trattava di ordini impartiti dall’ipnotista.



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