C'è stato un lungo periodo,
protrattosi fino a non molti anni fa, in cui un figlio era considerato come un
oggetto di incontestabile diritto del genitore. In Italia, ancora nel 1942, la
legge riconosceva l’istituto della patria
potestà quale “affermazione del
principio giuridico della sottoesposizione dei figli al potere familiare dei
genitori”[1].
Ciò rimarcava la tradizione romana, legata
al concetto di patria potestas[2],
in cui il rapporto genitore-figlio corrispondeva a un rapporto tra potere-soggezione.
In seguito ai profondi mutamenti culturali, in atto nel mondo occidentale e nella
società italiana già a partire dagli anni ’60, il diritto di famiglia subisce notevoli
trasformazioni che porteranno a un lungo processo di riforma; ne ricordiamo
alcuni passaggi fondamentali: la Legge n. 151/1975[3] sostituisce
il concetto di patria potestà con quello di potestà
genitoriale, intesa quest’ultima come l’esercizio di una funzione atta a realizzare gli interessi
della prole e non quelli di chi ne fosse investito. La potestà genitoriale era
intesa come un dovere di esercizio nell’interesse esclusivo del minore, “il che non esclude che il genitore, verso lo
Stato e verso i terzi, abbia un vero e proprio diritto soggettivo alla
titolarità dell’ufficio e all’esercizio personale e discrezionale del medesimo,
con l’unico limite di indirizzarlo verso il soddisfacimento delle sole esigenze
del minore”[4].
Con il DLgs 28 dicembre 2013 n 154, il concetto di potestà subisce una ulteriore
evoluzione e viene ad essere sostituito con quello di responsabilità genitoriale, termine con cui si sottolinea il fatto
che il genitore ha sul figlio un dovere
più che un potere. La responsabilità,
a differenza della vecchia potestà, che poneva un limite temporale, si estende
in maniera più ampia ai figli. Secondo il vecchio ordinamento la potestà
genitoriale veniva meno con il compimento della maggiore età, mentre la
responsabilità vincola i genitori al mantenimento dei figli fino alla loro indipendenza
economica, oltre quindi la maggiore età[5]. E’
interessante notare che il legislatore non ha voluto descrivere in maniera
compiuta in cosa consista la responsabilità genitoriale, una scelta non frutto
di negligenza ma motivata e che riprende la scelta fatta dal legislatore del
1942 che non definì la potestà. Così facendo tale nozione può infatti essere resa
attuale in ogni momento, riempita di contenuti al passo con l’evoluzione
socio-culturale dei rapporti genitori-figli e può quindi adattarsi all’
evoluzione dei tempi senza rimanere
cristallizzata all’interno di una definizione rigida.
La
Costituzione e la legislazione vigente in tema di diritto di famiglia ci
indicano in cosa consistono i reciproci diritti/doveri di genitori e figli[6]:
1. Il figlio ha diritto di essere
mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto
delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
2. Il figlio ha diritto di crescere in
famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
3. Il figlio minore che abbia compiuto gli
anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto
di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
4. Il figlio deve rispettare i genitori e
deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e
al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa[7].
Di notevole interesse generale e ancor di più
per quel che concerne la nostra professione di consulenti in psicologia
giuridica, è la Legge 8 febbraio 2006, n. 54 sull’ affidamento condiviso. Questa regola i rapporti tra genitori e
figli minorenni nelle situazioni in cui la crisi coniugale e di coppia porta alla
cessazione della convivenza, disciplinando non solo le separazioni in sede
giudiziale, ma anche nei casi di scioglimento, di cessazione degli effetti
civili, di nullità del matrimonio nonché dei procedimenti relativi ai figli di
genitori non coniugati[8]. La
legge riconosce il diritto del figlio minorenne di mantenere, anche in caso di
separazione dei genitori, un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno
di essi, in modo da ricevere da entrambi cura, educazione ed istruzione, e ulteriormente
di conservare rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
In deroga al principi vigente della bi-genitorialità, il giudice può disporre l'affidamento
dei figli ad un solo genitore, qualora ritenga, con provvedimento motivato, che
l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore. E’ in casi come
questi che molto spesso lo psicologo giuridico viene ad essere interpellato
come consulente del Giudice al fine di comprendere se sussistano o meno
condizioni pregiudizievoli per il minore che possano motivare la deroga del
preferenziale paradigma normativo di affidamento. Ma quando dall’ambito
giuridico si passa a quello psicologico-giuridico, la questione della
responsabilità genitoriale si trasforma in una riflessione sulle capacità e competenze genitoriali, e ciò
significa che su un piano operativo, spetta a noi psicologi, attraverso le nostre
specifiche competenze, dotare di significato e rendere concreto, per ogni caso specifico, un concetto giuridico altrimenti
generico.
[1] Punto
166 della Relazione al Re del 16 marzo 1942
[2] G.
Longo, Patria potestà (Diritto Romano), in Nuovissimo Digesto Italiano, V. XII,
Torino, UTET, 1957
[3]
Della potestà dei genitori – titolo IX del libro I del Codice Civile
[4]
Cfr. Cass. 7 novembre 1985, n. 5408
[5]Cfr.
DLgs 28 dicembre 2013 n 154
[6] Articolo
315 bis - Diritti e doveri del figlio
[7] LIBRO
I - DELLE PERSONE E DELLA FAMIGLIA TITOLO IX - Della responsabilità genitoriale
e dei diritti e doveri del figlio - Capo I - Dei diritti e doveri del figlio
Diritti e doveri del figlio
[8] Art.
4 Legge 54/2006